Fuori le serie! - #085: C'erano una volta alcune belle serie
Fuori le serie!
- di Nicola Cupperi -
#085 - C'erano una volta alcune belle serie
Ciao ,
questa è Fuori le serie!, la newsletter di Film Tv che ti segnala tutte le serie che partono, tornano o ricominciano in streaming ogni settimana.
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Questa settimana partono serie che arrivano un po' da tutte le parti: da storie vere (The Serpent), da film musicarelli satanici (Paradise City), da romanzi criminali svedesi (Snabba Cash) e da manga giapponesi (La via del grembiule).
NETFLIX
Il sapore delle margherite (Spagna, 2018)
seconda stagione dal 02/04/2021
Si può dire di tutto e di più degli spagnoli – casinisti, inquisitori, inventori di eresie come il kalimotxo, produttori di insaccati dai colori radioattivi e via discorrendo – ma non gli si può togliere il fatto che abbiano un certo rispetto per le innumerevoli culture minoritarie ma secolari che compongono la loro società. Chiaro, non daremo mai l'indipendenza a baschi e catalani. Ci mancherebbe. Siamo bravi, ma fino a un certo punto. Però, almeno, non cercheremo attivamente di sopprimere lingue, tradizioni, costumi e usanze. Il gallego dei galiziani nel nord-ovest del paese, per esempio, è una lingua parlata da più di tre milioni di persone. Più di quelli che, al mondo, sono a conoscenza della sua esistenza. Ed è un peccato, vista la storia e lo status di lingua a metà tra le sifolate castigliane e la cantilena portoghese. Ma in Galizia, nevvero, ci tengono molto. Abbastanza da produrre una serie, poi opzionata da Netflix, interamente recitata in gallego. Che sarebbe come se in Italia girassero un originale Netflix in veneto stretto, bestemmie escluse. La storia, archetipica del thriller, è quella della recluta della Guardia Civil Rosa Vargas, appena trasferita nello sperduto centro della Galizia presso la piccola città di Murias. Qui dovrà indagare sul primo caso della sua giovane carriera da sbirra, la scomparsa di una ragazza, Marta, sparita nelle più classiche delle circostanze misteriose. Tutti gli indizi porterebbero Rosa a dedurre che Marta si sia allontanata di sua spontanea volontà dal villaggio, teneramente ribattezzato dai suoi abitanti come “Il posto in cui non succede mai nulla”. In realtà, la protagonista comincia presto a dissotterrare una serie di crimini tenuti fino ad allora nascosti dagli abitanti di Murias.
The Serpent (Gb, 2021)
dal 04/04/2021
Tratto da una storia vera. E che storia vera, signora mia! Qua si racconta di uno dei sultani del male più viscidi degli ultimi 50 anni, perché anche nel magico club dei serial killer è difficile trovare gente che agisca con la freddezza controllata e priva di piacere con cui Charles Sobhraj ammazzava le sue vittime. Descritto come “bellissimo, affascinante e completamente privo di scrupoli”, l'artista precedentemente noto (agli uffici dell'anagrafe di Saigon dove è nato) come Hotchand Bhawnani Gurumukh Charles Sobhraj, infatti, era solito ricercare le sue vittime esclusivamente all'interno di un gruppo demografico per cui provava particolare odio: quelli che Norm MacDonald suole affettuosamente chiamare “gli sporchi maledetti hippies”. Sobhraj scovava le sue prede tenendo d'occhio la famigerata rotta hippie, la versione anni 60 e 70 dell'interrail, il viaggio barra pellegrinaggio che i ragazzi aderenti alla controcultura dell'epoca compivano partendo dall'Europa e arrivando a Bangkok, passando per Turchia, Iran, Afghanistan, Pakistan, India e Nepal. In The Serpent – che, per la cronaca, è uno dei tanti soprannomi da serial killer che Charles si è guadagnato – troviamo Sobhraj a metà degli anni 70 in Thailandia, all'apice della sua attività assassina. Al suo fianco l'amante, complice e succube Marie-Andrée Leclerc, assieme alla quale sceglie le vittime da rapinare, e a cui rubare l'identità prima di farle fuori. Nel quadro entrerà presto anche Herman Knippenberg, diplomatico olandese che comincia a investigare per conto proprio sui numerosi connazionali misteriosamente scomparsi nel sud-est asiatico. Segnatevi l'interpretazione, nei panni del disgustoso personaggio principale, del sempre sublime Tahar Rahim, già bravissimo protagonista de Il profeta.
Snabba Cash (Svezia, 2021)
dal 07/04/2021
C'era una volta un romanzo svedese di nome Snabba Cash – in Italia uscito come La traiettoria delle neve (perché in Svezia, si sa, nevica) – scritto da un talentuoso e giovane (all'epoca trentaduenne) avvocato penalista e romanziere di nome Jens Lapidus. Il libro, che parte dalle esperienze professionali di Lapidus riguardanti il mondo della criminalità, racconta la storia di un ragazzo campagnolo, JW, trasferitosi a Stoccolma con l'ambizione sbagliata in testa: quella di vivere appieno la “stekare”, la versione svedese della dolce vita opzionata dai ganassa vitelloni che vogliono ostentare ricchezze che non possiedono. JW abita in pieno centro e fa il fenomeno con le ragazze, buttando ca$h neanche fosse un rappuso che ha appena firmato un contratto discografico con Jay-Z. In realtà, quegli spiccioli se li guadagna abbastanza faticosamente e altrettanto pericolosamente facendo il tassista abusivo. Quando i soldi cominciano a non bastare, JW molla definitivamente gli ormeggi, accetta l'offerta del suo datore di lavoro e comincia a spacciare cocaina. Da qui è tutto un casino che coinvolge un cileno in fuga dalla polizia e un killer della mala serba che sogna di ritirarsi a vita privata insieme alla figlioletta. Nel 2010, dal romanzo di Lapidus viene tratto un buon film (Easy Money, diretto da Daniel Espinosa) che si merita un paio di sequel (esattamente quello che è successo anche al libro di partenza) e anche qualche voce sparsa su un possibile remake americano con protagonista Zac Efron (ahia) e prodotto da Weinstein (ahiahia). Di quest'ultimo progetto non se n'è fatto nulla, grazie al cielo; ma la gana di continuare a incassare sulle intuizioni dello scrittore svedese rimanevano intatte, ed ecco che arriva una rilettura del romanzo in versione seriale e prodotta da Netflix. L'azione si sposta in avanti di dieci anni, le ambientazioni e gli stimoli narrativi (c'è bisogno di soldi facili, e in fretta) rimangono gli stessi, ma la protagonista diventa Leya, madre single che tenta di barcamenarsi nell'imprevedibile e ultra-competitivo mondo delle startup. Quando l'ennesima iniziativa di Leya va a rotoli, e non per sue responsabilità, la donna decide di sfruttare una connessione famigliare per addentrarsi nel mondo della criminalità. A rigor di logica, di qui in avanti succederanno cose.
La via del grembiule - Lo yakuza casalingo (Giappone, 2021)
dal 08/04/2021
Di nuovo c'era una volta, ma in questo caso si tratta di uno yakuza leggendario, temuto da tutto il sottobosco criminale giapponese e conosciuto con il sobrio soprannome di Dragone Immortale. Solo che, a un certo punto e senza alcuna spiegazione, il Dragone sparisce dalla circolazione e non ci sono più notizie a riguardo. Che fine ha fatto il boss? È stato ucciso? Impossibile, di cognome fa Immortale. Si è pentito? Non esiste: lo sanno tutti che i rettili giganti del folklore sono fisiologicamente incapace di pentirsi. Altrimenti sarebbe una vita complicata, con il fatto che per guadagnarsi da vivere sono costretti, per contratto, a bruciare villaggi e mangiare eroi in armatura. Niente, in realtà è successa una cosa molto più normale. Dragone Immortale – che ha anche un nome umano, ed è Tatsu – è semplicemente molto innamorato di sua moglie Miku. E sua moglie Miku è quella che in Giappone chiamano kyariaūman, ovvero è una donna in carriera, una designer di successo con una grande etica del lavoro. Per sostenerla e supportarla, Tatsu ha rinunciato al suo indeterminato da yakuza per intraprendere, come da titolo, una carriera altrettanto pericolosa e potenzialmente più difficile: quella di casalingo. Il trucco, però, è quello di mantenere la stessa intensità marziale da sacripante che aveva quando andava a incassare il pizzo anche quando deve preparare la schiscetta per Miku, separare i bianchi dai colorati per la lavatrice, o comprendere le misteriose traiettorie di un roomba. La serie, tratta dall'omonimo manga realizzato da Kousuke Oono, è stupida (in senso buonissimo) quanto sembra leggendone le premesse, impaccata com'è di sketch sopra le righe e di variazioni sul tema – a un certo punto, com'è normale che sia, Tatsu comincia a imbattersi nei vecchi compari di mafia che tentano di riportarlo sulla cattiva strada.
PRIME VIDEO
Paradise City (Usa, 2021)
dal 07/04/2021
C'era una terza volta – questa settimana va così, prendetevela con chi fa le serie. O con il primo tizio che ha scritto una favola, non sapeva come cominciare e si è inventato “C'era una volta”. Adorabile pigro bastardo – un signore di nome John Avildsen. Sì, esatto: il compianto regista premio Oscar per Rocky John G. Avildsen. John G. Avildsen, all'insaputa di tutti e specialmente di Sylvester Stallone, a un certo punto ha avuto un figlio, Ash, il quale da grande ha deciso di diventare un produttore di quella musica che nominalmente si chiama ancora rock/metal, ma che in realtà esiste apposta per fare incazzare tutti quelli che hanno superato i 40 anni e che passano metà della loro vita a borbottare “Se questo è rock io sono Jimmy Page”. A un certo punto della sua vita, però, Ash Avildsen ha deciso che poteva dare di più al mondo del rock, sfruttando il suo codice genetico da potenziale premio Oscar. Si è buttato sul cinema, il buon Ash, unendo definitivamente le sue due passioni con il secondo film da regista, delicatamente intitolato American Satan. È la storia, quella di American Satan, di una manciata di giovani mezzi inglesi e mezzi americani che si conoscono sul web e decidono di mettere insieme una band metallica altrettanto delicatamente ribattezzata The Relentless (Gli implacabili). Ci sono due però, però. Primo: il frontman del gruppo si chiama Johnny Faust, e non promette niente di buono. Secondo: subito dopo essersi formati ed essersi trasferiti a Los Angeles, i The Relentless incontrano Malcolm McDowell che dice di essere Satana in persona, e che promette loro successo e soldi in cambio di un misero sacrificio umano. I regaz ci stanno, e la loro band ottiene riconoscimento internazionale di lì a breve. Ma succedono anche cose che vanno dal brutto al molto brutto, e alla fin della fiera Johnny quasi quasi ci ripensa. In pratica Ash Avildsen ha preso l'intuizione più sfruttata nella storia della letteratura umana, quella del Faust, e l'ha fatta diventare un musicarello finto metal per giovani che vogliono trasgredire, ma responsabilmente. Le avventure del musicarello metallico, però, non finiscono qui: c'è Prime Video che ha consegnato dei soldi ad Ash per un sequel sotto forma di serie, in cui un po' tutti i membri del cast di American Satan tornano a reinterpretare i loro vecchi ruoli.
Them: Covenant (Usa, 2021)
dal 09/04/2021
Laddove il vero titolo di questa produzione orrorifica è Them, mentre Covenant è giusto il sottotitolo appioppato a questa prima stagione auto-conclusiva, visto che i piani del creatore (Little Marvin, all'esordio come showrunner) prevedono uno sviluppo antologico, con ogni stagione che si concentrerà su diverse accezioni del concetto di terrore in America. Covenant è ambientata negli anni 50, nel pieno dell'epoca (iniziata negli anni 10 e finita nei 70) conosciuta come Grande migrazione afroamericana, quando (secondo le stime) almeno sette milioni di cittadini neri americani decisero di abbandonare il Sud del paese per affrancarsi dalle leggi razziali implementate dagli ex stati confederati. Solo che, e aiutatemi a dire “Grazie America per la lezione di civiltà”, il razzismo non si esaurisce mai con la sola abolizione delle leggi razziali. Altrimenti il problema sarebbe risolto da (comunque sempre troppo poco) tempo. Ecco che la famiglia Emory, dunque, lascia la Carolina del Nord per raggiungere il supposto paradiso californiano, un posto che anche a quei tempi rappresentava ancora la frontiera, il nuovo inizio e la possibilità di ricostruirsi una vita libera dai cascami della schiavitù. Non per niente Los Angeles è chiamata la Città degli angeli, giusto? Sbagliato. Anche perché, a ben pensarci, nelle tradizione iconica che ha sbiancato il semitico Gesù, anche tutti gli angeli in colonna sono bianchi come i denti della pubblicità di un collutorio. [A latere: non si discute mai abbastanza di quanto sorprendente sia la dizione di “collutorio”. Dovrebbe esserci una “t” in più. Change my mind]. Gli Emory traslocano in un quartiere in cui i bianchi escono letteralmente dalle fottute pareti. E ci mettono poco, i nuovi arrivati, a capire che in quella zona circolano forze misteriose e malevole – sia all'interno della loro casa infestata, sia nelle menti e nei cuori delle sciure bianchissime che mettono loro i bastoni fra le ruote.
- questa rubrica settimanale esce il venerdì per consigliarti come distruggerti di binge watching intensivo durante il fine settimana -
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«Non faccio altro che perdere. Forse certe persone devono semplicemente continuare a perdere, per bilanciare l’equilibrio sulla Terra». Lo dice Earn - circa 30 anni, un futuro a Princeton finito nello sciacquone, una figlia da una donna che non lo vuole più, un lavoro che non gli permette di pagarsi l’affitto - rivolgendosi a uno sconosciuto in completo anni 40, su un bus che attraversa Atlanta. Lo sconosciuto svanisce nel nulla, è un’apparizione vagamente lynchiana, e la sequenza, uno dei tanti momenti surreali di cui la prima stagione di Atlanta è disseminata, ci aiuta a spiegare perché è forse il prodotto televisivo più importante del 2016. In primis perché Donald Glover (stand up comedian, sceneggiatore tv nella scuderia di 30 Rock, prossimo volto di Lando Calrissian nello spinoff di Star Wars su Han Solo, autore di dischi rap e r’n’b con lo pseudonimo Childish Gambino) ne è creatore, interprete, regista, produttore e supervisore delle musiche: un’opera concepita e sviluppata da un unico autore, con grande libertà espressiva, come era accaduto a Louis C.K. con Louie (con cui Atlanta condivide il canale Usa, FX, ai cui dirigenti Glover afferma di aver spudoratamente mentito sulla natura del progetto fino a via libera ottenuto). Cosa vuol dire libertà in una serie tv? Per esempio, che non c’è un solo personaggio che compaia in tutti gli episodi; la trama orizzontale (labilmente agganciata all’ambizione di Earn di diventare manager del rampante rapper Paper Boi, che accidentalmente è anche suo cugino) è talvolta accantonata per digressioni lunghe un episodio intero; una puntata è addirittura “sostituita” da un finto approfondimento giornalistico di un’altrettanto fittizia emittente all black (con tanto di spot pubblicitari inventati ad hoc). Ma la grande forza di Atlanta è nella totale coerenza fra forma e contenuto: sarebbe limitante dire che la serie è “inetichettabile”, che oscilla fra dramma, commedia e musical (Atlanta, la città, sta all’hip hop come Nashville sta al country, e lo show è costellato di riferimenti a quel mondo). Ciò che Glover realizza è una sorta di compendio di “cosa significa essere nero, in America, oggi”, dove la comicità è crepata dal perturbante e il gusto per l’assurdo (di dialoghi e invenzioni visive) rispecchia l’assurdo di uno spaccato sociale. Atlanta scansa il racconto di genere, la predica o un esplicito j’accuse e preferisce piuttosto utilizzare una forma narrativa, sospesa fra realismo e surrealismo, che restituisce una quasi costante percezione di disagio, di tensione, di incomprensione culturale al limite del nonsense. Così, quando a rubare la scena a Paper Boi subentra Justin Bieber, la popstar è interpretata, senza che venga fornita alcuna spiegazione, da un attore nero; quando uno dei protagonisti si esercita al tirassegno con la sagoma di un cane, viene guardato con sospetto da chi preferisce sparare a sagome umane; quando Earn si sente un fallito, si trova accanto il fantasma di un elegante sconosciuto che gli offre pane e Nutella. L’appropriazione bianca della cultura nera, l’ineludibile consonanza fra mondo rap e criminalità, l’incombenza delle forze di polizia si traducono, senza essere strillate, in inceppi narrativi, in scambi demenziali, in alterazioni stranianti. Un prodotto, per certi versi, senza precedenti; il più politicamente rilevante in questa grottesca fase di passaggio tra Obama e Trump.
Ilaria Feole
[pubblicata su Film Tv n° 03/2017 e nella nostra raccolta cartacea I Quaderni di Film Tv n° 01: S01]
EXTRA
Pilota è un podcast sulle serie tv realizzato da Alice Alessandri, Alice Cucchetti e Andrea Di Lecce grazie alla piattaforma Querty. Abbiamo pensato di riascoltarlo dall'inizio insieme ai lettori di questa newsletter, proponendone un episodio ogni settimana.
Pilota 1X07 - Per una singolare coincidenza questa puntata di PIlota è perfettamente in sintonia con il numero di Film Tv di questa settimana, in cui, approfittando dell'uscita on demand di Judah and the Black Messiah, abbiamo pubblicato una panoramica dedicata al black cinema. In questa puntata infatti Alice, Alice e Andrea approfittano del mese di febbraio, tradizionalmente dedicato negli Usa alla black issue, per fare il punto sulla rappresentazione nera (e in generale delle minoranze) nel mondo delle serie. - CLICCA QUI e ASCOLTA su SPOTIFY
Bisogna sperimentare, è chiaro. Apple TV+ ci riprova: dopo l'esperimento di Calls, di cui vi abbiamo parlato , ora la piattaforma ha lanciato un nuovo progetto a cavallo tra le forme espressive. Si chiama The Line, ed è un oggetto per metà podcast e per metà docuserie prodotto dalla Jigsaw Productions di Alex Gibney (premio Oscar nel 2008 per il miglior documentario con Taxi to the Dark Side, personaggio che di sperimentazione se ne intende e che secondo Esquire "sta diventando uno dei più importanti documentaristi del nostro tempo"). Il progetto di The Line comprende due parti complementari: un podcast in sei parti disponibile su Apple Podcasts dal 6 aprile e un documentario in quattro parti che sarà disponibile in autunno su Apple TV+. Maggiori dettagli in questo articolo in lingua inglese.
È una delle serie di maggior successo degli ultimi anni, ma soprattutto una di quelle che è riuscita a creare molto velocemente una fanbase estesa e trasversale alle generazioni. Ma Stranger Things ha anche significato un'inattesa popolarità per i suoi giovani attori protagonisti, che nel caso di Millie Bobby Brown si è manifestata con un vigore e, si potrebbe dire, un accanimento che hanno preso rapidamente una piega non piacevole. Ora l'attrice è nel cast di Godzilla vs. Kong e ha rilasciato una lunga intervista a MTV nella quale, tra le altre cose, accenna al fatto che a volte, in casi come il suo, crescere sembra non essere consentito (per i fan) e la fama non è mai facile da gestire, se sei un'adolescente. Il video è qui, in inglese.
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